Published On: 26 Aprile 2025

Se per etica nel settore della moda si intende una serie di comportamenti e norme che garantiscono
un ambiente lavorativo sano, basato sul rispetto dell’altro, correttezza, condizioni di lavoro sicure e
dignitose, salari adeguati ed equi, opportuni orari di lavoro, tutela dei lavoratori e del consumatore,
trasparenza, pratiche di commercio leali, nessuna discriminazione di genere, no al lavoro minorile e
la salvaguardia dell’ecosistema, ecco che tutto ciò nella maggior parte dei casi viene meno.
L’industria tessile è una delle più impattanti al mondo sotto un punto di vista sociale, economico,
ambientale e sulla nostra salute, infatti è la seconda più inquinante!
Gli artefici di tutto questo sono da una parte i brand della fast fashion (moda veloce), oggi si parla
addirittura di ultra fast fashion, e dall’altra i brand del lusso, che molti tanto osannano.
Il sistema di produzione ormai consolidato su cui si basa la moda già da decenni è la
sovrapproduzione di abiti dovuti al modello “usa e getta” dei fast fashion brand che si focalizzano
su un utilizzo non longevo degli indumenti portando a comprare sempre più, ma ad indossare
sempre meno, e allo sfruttamento della manodopera specializzata, anche minorile, che vede come
unico scopo massimizzare i profitti.

Basti pensare che il Gruppo LVMH (tra i brand Dior, Louis Vuitton, Fendi, Loro Piana) di proprietà
di Bernard Arnault nel 2023 ha fatturato 86miliardi di euro e il gruppo KERING (Gucci, Bottega
Veneta, Balenciaga) di proprietà di François-Henri Pinault ha fatturato 19,6miliardi di euro.

Ad oggi con l’enorme quantità di abiti prodotti si possono vestire le prossime SEI GENERAZIONI!

La produzione di fibre tessili è aumentata rapidamente passando da 58 milioni di tonnellate nel
2000 a 109 milioni nel 2020. Nel 2030 si stima che arriveremo a 145 milioni di tonnellate.
E’ un sistema che si snoda in giro per il mondo, ma partiamo dall’Italia.

Notizia di qualche mese fa vede alcune case di moda sotto inchiesta della procura di Milano per lo
sfruttamento dei lavoratori negli opifici dei fornitori nell’hinterland di Milano, tra queste Alviero
Martini, Giorgio Armani e Dior.
In Italia da nord a sud esistono fabbriche di abbigliamento illegali. I lavoratori lavorano a contatto
con sostanze pericolose senza alcuna protezione, dispositivi di sicurezza rimossi e macchinari
manomessi per aumentare la capacità produttiva a discapito delle misure di sicurezza, turni
massacranti senza pause fino a notte fonda e anche durante le vacanze, dormono in laboratorio nei
sacchi a pelo o sui soppalchi, sono costretti a vivere in condizioni igieniche indegne senza un
contratto regolare oppure a nero, alcuni sono privi di permesso di soggiorno. Nessun contributo gli
viene pagato. Vengono segnate 4 ore lavorative ma in realtà ne fanno 16. Gli stessi fornitori
vengono pagati in contanti quindi i pagamenti non sono tracciati.

Così le borse Dior che costano quasi 3000 euro valgono in realtà 50 euro, realizzate da lavoratori
cinesi sfruttati con un salario di 1 euro all’ora. Loro Piana vende i maglioni in alpaca a quasi 9000

euro realizzati con la manodopera gratuita dei tessitori e produttori di alpaca peruviani. Adidas non
paga i salari delle sue lavoratrici cambogiane. Questi sono solo alcuni esempi, ma sono tantissimi i
brand di lusso interessati.
Per quanto riguarda l’alpaca, il filato più apprezzato del momento, viene lavorato anche da alcuni
produttori in Toscana, tuttavia i brand italiani e non preferiscono rifornirsi direttamente dal Perù,
dai cosiddetti alpaqueros. Quest’ultimi vengono pagati 1/ 2 euro al kg a seconda della quantità di
alpaca che possiedono, quindi non riescono ad avere una vita dignitosa, senza sussidi e pensioni, e i
brand vendono i loro maglioni a più di 3000 euro.

Per ammortizzare i costi di manodopera e risparmiare sulle procedure fiscali si è verificata la
delocalizzazione della produzione.
Un caso in Europa che riguarda il settore delle calzature è la Turchia. Nella periferia di Istanbul
sono nascosti in grandi edifici laboratori illegali di calzature al cui interno lavorano anche bambini.
Sia piccoli che grandi brand italiani fanno disegnare e produrre migliaia di prodotti da piccoli
artigiani turchi. Quest’ultimi mettono a disposizione tessuti, accessori, modelli e disegni,
l’imprenditore italiano acquista il prodotto già fatto, lo fa etichettare made in Italy e lo importa
illegalmente in Italia rivendendolo ai prezzi alti del made in Italy. Infatti per ogni paio di scarpe gli
artigiani turchi vengono pagati 25 dollari e i brand li rivendono a 200 euro.
La manodopera è costretta a lavorare 10 ore al giorno in condizioni lavorative inaccettabili. Tra
questi ci sono rifugiati, adolescenti e bambini siriani scappati dal loro Paese in guerra, senza
documenti e diritti pagati 10 euro al giorno. (In Turchia ci sono 2 milioni di lavoratori minorenni.)

Alla fine degli anni ‘80 l’industria della moda ha spostato gran parte della produzione tessile in
Bangladesh. Oggi ci sono circa 5000 mega industrie tessili, lavorano più di 4 milioni di persone, in
particolare donne fuggite dalle campagne e 1 milione di bambini. Il Bangladesh è diventato il
secondo produttore di vestiti del pianeta dopo la Cina, infatti i beni di esportazione dal Paese sono
per l’80% tessili.
Sfortunatamente le condizioni di lavoro sono tra le 10 peggiori al mondo. Non è un caso che il 24
aprile del 2013 si sia verificato il crollo dell’edificio tessile del Rana Plaza a Dakha.
I lavoratori lavorano 6 giorni su 7, 11 ore al giorno, non hanno ferie e giorni di malattia.
Guadagnano 70 euro al mese (8000 taka), ma per vivere dignitosamente ne servirebbero almeno
200 euro. Sono costretti a vivere nelle slums.
Purtroppo non ci sono alternative lavorative perché il settore tessile traina il Paese.
Ogni capo (prodotto e confezionato) viene pagato 5 dollari, incluso spese di spedizione e poi
rivenduto in Italia dai 100 euro in su se si tratta di brand di lusso. Inoltre i fornitori non hanno
contratti che garantiscono la fornitura nel tempo.

I brand sono molto ipocriti quando approcciano ai fornitori e le pratiche più ingiuste a cui
quest’ultimi sono sottoposti sono la cancellazione degli ordini, il fatto che i brand decidano di
pagarli meno di quanto avevano pattuito o che non acquistino più i prodotti che sono già stati
spediti, quindi già fatti. Più grandi sono i brand, più queste pratiche peggiorano.
– Fiona Gooch (Transform Trade)

In tutto ciò si va incontro anche all’inquinamento ambientale, perché nell’aria viene rilasciata una
grande quantità di CO2 dovuto al trasporto dei vestiti verso Italia e non solo. Inoltre le fabbriche

tessili incluse concerie e tintorie, dovrebbero depurare le acque di scarico prima di rilasciarle nei
fiumi, ma non ci sono leggi che obbligano a farlo e i brand occidentali pagano poco, quindi per
garantirsi un minimo di guadagno sono costretti a tagliare i costi alla depurazione dell’acqua. Solo
le grandi compagnie hanno impianti di depurazione.
La tintura è uno dei processi più inquinanti nella catena di produzione d’abbigliamento. Ogni anno
in Bangladesh vengono colorati circa 8000kg di tessuti. Viene usato il cromo per trattare le pelli e
dare il colore blu. I lavoratori tingono senza alcuna protezione, né guanti né stivali. Per trattare 1L
di acqua servono 5/6 taka, quindi nei fiumi rilasciano 10.000L di acqua contaminata al giorno.
Nei fiumi c’è sempre meno ossigeno e alte percentuali di fosforo e solfati, i pesci muoiono, non si
possono irrigare i campi perché l’acqua è troppo salata, nonostante ciò il riso cresce ma è tossico,
l’acqua è nera da almeno 20 anni. Solo i monsoni aiutano a ripulire l’acqua.
I lavoratori e la popolazione vanno incontro a gravi problemi di salute. L’acqua non è più potabile e
reca danni all’agricoltura e alla pesca.

Inquinante è anche la produzione dei jeans. Ogni anno ne vengono prodotti circa 2miliardi nel
mondo. Vengono tinti con l’indaco sintetico al 99% proveniente dalla Cina per dargli il colore blu e
vengono aggiunti altri diluenti chimici che sono metalli pesanti quali cadmio, piombo, mercurio e
l’idrosolfito. Nelle fasi di lavaggio vengono scaricati nelle acque i solfiti i quali assorbono
l’ossigeno e lo tolgono alla vita nelle acque, questi si trasformano in solfati e diventano sale.
In Cina, grande produttrice, ogni anno vengono scaricati nei fiumi ormai inquinati 2miliardi e
mezzo di tonnellate di acque reflue inquinate e non tutte adeguatamente trattate. Alcuni studi recenti
hanno trovato agenti cancerogeni legati ai coloranti chimici impiegati nella fase di tintura. Questi
influenzano il sistema nervoso centrale, il sistema immunitario e agiscono sul fegato. Sono state
trovate anche sostanze chimiche che possono interferire con i sistemi ormonali in grado di cambiare
l’apparato riproduttivo dei pesci.
Purtroppo questi coloranti chimici non si diluiscono nelle acque dei fiumi e quindi si diffondono in
tutto il mondo. Negli anni ’70 erano stati vietati sia in Europa che in Nord America, ma dato che
anche i marchi europei si riforniscono da queste fabbriche, quando acquistiamo i capi e li laviamo
nelle nostre lavatrici finiscono anche nelle nostre falde acquifere e sulla nostra pelle.
L’industria tessile usa in 1 anno il 3,2% di tutta l’acqua disponibile per la razza umana e presenta
anche il più basso tasso di riciclo dell’acqua. In un solo anno un grande marchio di moda utilizza
l’equivalente in acqua di 43000 piscine olimpioniche.

Con tutto questo sfruttamento di manodopera e inquinamento ambientale, nel 2024 grandi Mason
tra cui Diesel, Gucci e Moncler, hanno vinto anche i CNMI Sustainable Fashion Awards, ovvero il
premio alla sostenibilità (quindi rispetto verso gli uomini e l’ambiente) organizzato dalla Camera
Nazionale della Moda Italiana. L’ipocrisia della moda!

Photo Credit to the owners

Fonti:

  • Fashion Revolution
  • Documentario “JUNK -Armadi pieni” di Matteo Ward
  • inchieste programma tv “Indovina chi viene a cena” di Sabrina Giannini
  • inchiesta programma tv “Farwest” di Salvo Sottile