Published On: 26 Aprile 2025
Altro grande problema sono i fast fashion brand, tra questi Shein, H&M, Temu, Primark, Forever 21, ZARA, GAP
Innanzitutto i vestiti sono composti da sostanze tossiche quali piombo e cadmio, che provocano danni alla nostra pelle, fertilità, reni, sangue, ossa e malattie cancerogene.
Altra questione è la sovrapproduzione che in soli 15 giorni disegnano, producono e consegnano al punto vendita i loro capi. Ad esempio ZARA ogni anno dà vita a 20 collezioni, H&M dalle 14 alle 16 collezioni, mentre altri arrivano fino a 50 collezioni all’anno.

Ogni consumatore dopo in media 20 lavaggi butta via i capi e ne compra di nuovi.
La gran parte dei vestiti vengono creati con fibre sintetiche e artificiali, come la viscosa. I brand
stanno aumentando la percentuale di fibre plastiche, invece di limitarle.

Ogni anno vengono prodotti 100 miliardi di vestiti, il 60% di questi finisce in discarica entro il
primo anno. Solo l’1% del materiale utilizzato in produzione finisce nelle discariche e negli
inceneritori. Riguardo i capi rimasti invenduti in Europa, il 10% viene inviato direttamente negli
inceneritori, un altro 10% riutilizzato a livello locale, il 30% riciclato e il 50% esportato nei Paesi
del terzo mondo.

Fast fashion isn’t free. Someone somewhere is paying.” (La fast fashion non è gratuita. Qualcuno in qualche parte del mondo sta pagando per te.)
– Lucy Siegle –

Quindi abbiamo due problemi: da un lato la deforestazione e dall’altro discariche di vestiti a cielo
aperto.
Per quanto riguarda la deforestazione, emblematico è il caso dell’Indonesia, dove c’è la maggior
produzione di viscosa, conosciuta anche come rayon.
Durante il regime di Mussolini l’Italia era considerata la regina del rayon per le sue fabbriche, dove
creavano artificialmente la viscosa utilizzando acidi e solfurio di carbonio, quest’ultimo in
particolare provocava disturbi al sistema nervoso e tanti altri problemi di salute, fino alla morte.
L’ultima fabbrica in Italia è stata chiusa nel 2007 e da allora la produzione si è spostata in
Indonesia, Cina e India.
Si ricava dalla cellulosa degli alberi di eucalipto e per questo motivo molti credono sia una fibra
naturale e sostenibile, niente di più falso. E’ una fibra artificiale e per produrla ogni anno vengono
abbattuti circa 300milioni di alberi. In particolare sull’Isola di Sumatra dagli anni ’90 è iniziata
l’operazione di deforestazione. Ad oggi è stato raso al suolo il 60% della foresta pluviale, pari a
3000 ettari, per fare spazio alle monocolture intensive di alberi di eucalipto. E’ tutto nelle mani di
una grande multinazionale, la TPL, nominata dal governo indonesiano “Oggetto di vitale
importanza per la Nazione” ricevendo tutela e protezione da unità paramilitari. La foresta pluviale
era composta dai terreni degli indigeni che ora combattono per il restante 40% del suolo. Purtroppo
gli indigeni non hanno nessun potere e diritto sui loro terreni perché lo Stato li concede alle
imprese. Inoltre tutto questo ha ripercussioni anche sui fiumi che vengono deviati, strozzati ed
infine muoiono.

Per quanto riguarda le discariche a cielo aperto due sono le più grandi.
La prima si trova nel deserto di Atacama, al nord del Chile, il cosiddetto “cimitero del fast fashion”,
dove ci sono accumulati tra gli 8 e 10 anni di residui tessili. Il 40% è in condizioni inutilizzabili. A
causa delle alte temperature i rifiuti prendono fuoco facilmente intossicando migliaia di persone.
L’alto tasso di rifiuti tessili è dovuto ai resi che nella maggior parte dei casi non vengono rivenduti
al pubblico perché il costo di ricondizionamento, vale a dire stirarli, sanificarli e verificare i danni,
può essere più alto di quello che valgono. Così i brand affidano ad aziende terze i loro resi che poi

rivendono al kilo in Sudamerica, Africa e Sudest asiatico. Purtroppo il Cile non vieta ancora
l’importazione di vestiti di seconda mano.

E poi c’è il Ghana che diventato la seconda destinazione di abiti di seconda mano provenienti
dall’Europa, tra cui l’Italia. Solo nel 2022 dall’Italia sono state importate quasi 200.000 tonnellate
di indumenti usati. (l’Italia è la nona esportatrice a livello mondiale, terza in Europa, dietro a Belgio
e Germania)
Chorkor Beach è diventata una scogliera di spazzatura di più di 3km.

Ad Accra invece è nato il mercato di Kantamanto, il secondo mercato di abiti usati più esteso del
Ghana.
Purtroppo lo scorso 2 gennaio è scoppiato un incendio di grandi dimensioni, non si sono registrati
morti ma più del 60% dei punti vendita è andato distrutto, tutto ciò ha danneggiato più di 8000
commercianti, per questi la rivendita di abiti usati era l’unica fonte di sussistenza.

Ogni settimana a Kantamanto arrivano camion contenenti circa 15 milioni di vestiti di seconda
mano o inutilizzati. I ghanesi hanno dato un nome ai nostri vestiti chiamandoli “Obroni wawu” i
vestiti dell’uomo bianco morto”, perché qui un tempo i vestiti si abbandonavano solo al momento
della propria morte. Quando tutti questi vestiti sono iniziati ad arrivare la spiegazione più logica per
loro è che noi bianchi fossimo morti. Il 40% dei vestiti è inutilizzabile perché sono di scarsa qualità
e realizzati in fibre sintetiche (poliestere, nylon e acrilico) e perché sono capi invernali che non
possono essere indossati in una regione dove il clima è tropicale, quindi finiscono nelle fogne. I
ghanesi hanno iniziato a preferire i nostri capi perché costano 0,50 cent/ 1 euro, invece dei vestiti
tradizionali africani che ora indossano solo la domenica perché sono costosi, infatti devono
acquistare il materiale e farlo cucire dal sarto.

E’ nato il “The Revival Earth” un progetto locale mirato a creare lavoro, cultura e opportunità
attraverso il recupero creativo di vestiti di scarto. Inoltre sono stati ideati laboratori di upcycling,
perché la maggior parte dei vestiti di scarto sono di scarsa qualità che trasformali in modo radicale è
l’unico modo per rivenderli.

Nel 2018 molti Paesi africani ( kenya, Rwanda e Uganda) hanno provato a vietare l’importazione di
vestiti di seconda mano, ma la risposta degli USA è stata che se l’avessero fatto sarebbero stati
esclusi dalla AGOA, il patto di commercio internazionale, quindi non permettendo l’esportazione
dei loro prodotti.

In India c’è anche il più grande centro di riciclaggio di rifiuti tessili illegale al mondo, PANIPAT! I
vestiti provengono dall’Europa e dagli USA, perché qui non pagano le tasse. Vengono tagliati in
piccole strisce, immersi in vasche pieni di acidi e sbiancate, da queste creano del nuovo cotone. Gli
operai lavorano in condizioni di pericolo, senza scarpe, guanti, mascherine e indumenti di
protezione.

L’impatto umano è arrivato ovunque, anche sull’Everest. Negli ultimi anni è diventato una
montagna di rifiuti. L’afflusso di migliaia di scalatori l’ha trasformato in un accumulo di rifiuti, non
solo bottiglie di plastica e tende da campeggio, anche microplastiche derivate dalle fibre sintetiche
delle attrezzature da montagna, quali poliestere, acrilico, nylon e polipropilene.

Ognuno pensa di lasciare al proprio figlio la casa, la macchina, un conto in banca, ma qual è la
vera cosa che lasciamo ai nostri figli e alle generazioni future? L’ambiente!
– Dottore Francesco Bertola (presidente associazione italiana medici per l’ambiente Vicenza)

Tutto questo sistema ha portato ha portato a un inquinamento globale che ha ripercussioni sulla nostra salute!
Il suolo sul quale camminiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, i cibi che mangiamo, i vestiti che indossiamo.

Un recente studio dell’Università del New Mexico pubblicato sulla rivista Nature Medicine mostra
che nel nostro cervello ci sono circa 10g di microplastiche e nanoplastiche dovuto all’inquinamento
della plastica e alla produzione e consumo di tessuti e vestiti in fibre sintetiche. Queste possono
causare infiammazioni, stress ossidativo, alterazioni del metabolismo, danni neurologici e ormonali
ed effetti cancerogeni.

Comprate meno, scegliete meglio, fate durare le cose! Guardate la qualità, non la quantità. Ormai
troppe persone comprano troppi vestiti.

– Vivienne Westwood (stilista e imprenditrice)

Ricordiamoci che siamo noi a dare potere a questi brand acquistando i loro capi creati da lavoratori sfruttati e con tecniche di produzione che inquinano il Pianeta. E non dimentichiamo che non è solo il nostro, è anche degli animali e piante.
Iniziamo ad acquistare capi di qualità che durano tutta la vita per comprare ed inquinare meno.
Adottiamo un approccio al consumo consapevole e saggio!
La decisione è tutta nelle nostre mani!

Photo Credit to the owners

Fonti:

  • Fashion Revolution
  • Documentario “JUNK -Armadi pieni” di Matteo Ward
  • inchieste programma tv “Indovina chi viene a cena” di Sabrina Giannini
  • inchiesta programma tv “Farwest” di Salvo Sottile